Le gioie dell’insegnamento centotreesima

Amnesia

di Marika Marianello

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Attraversi il cancello cigolante e ti immergi in una coltre di nebbia bassa che a malapena lascia intravedere un maniero scuro in fondo a un viale grigio, pieno di crateri, bozzi e radici. Sali i tre gradini, altissimi, e infili la porta. Uno scenario post apocalittico ti accoglie nell’atrio: un denso odore di muffa invade prepotentemente le narici, stordendoti; sul soffitto ragnatele spesse come reti da pesca sono dimora di enormi ragni pelosi; intrappolati nelle trame intessute durante le feste natalizie si dimenano, a scatti, insetti deformi; crepe profonde e nere solcano le pareti ingiallite disegnando mani ossute e nodose; in un angolo, ratti neri rosicchiano teste di statuette di pastorelle e pecorelle sopravvissute alla polvere del presepe; il crocefisso rovesciato sovrasta la cattedra d’ingresso e serve da monito ai temerari che si addentrano nelle tenebre dell’edificio.

Lì piantonata, una figura curva e rugosa rantola Buongiorno Prof. La voce ti arriva distante, ovattata, lenta, distorta.

Provi a rispondere, titubante, ma non riconosci il suono che esce dalla tua bocca e che ti graffia la gola. Forse un gemito. Ti pulsano fortissimo le tempie: c’è qualcosa di confusamente familiare in quel dedalo di corridoi che si mimetizzano nell’indefinito panorama spettrale oltre quel fossato di coccodrilli che si agita ai tuoi piedi.

Attraversi il ponticello sospeso senza guardare in basso e a mano a mano che avanzi prendono corpo figure dai volti sfocati che da lontanissimo articolano a fatica frasi come Buongiorno o Buonanno. La testa ti fa sempre più male. Non capisci perché sei lì, se è un sogno (molto probabilmente un incubo) o una punizione divina per non aver aggiornato il RE fino all’ultima presenza dell’ultima creatura dell’ultimo giorno.

Cerchi di sorridere alle anime in pena che in lenta processione ti sfilano davanti, pietose, ma una paralisi facciale te lo impedisce. Se Loch Ness esiste si è svegliato dentro e fuori di te, stamattina. Pensi Ci sono già stata qui, ho come un dejà vu, c’è un motivo che mi ha portato fin qui, senti quell’attrazione irresistibile propria dei luoghi della memoria che non si rivelano al primo sguardo ma ci impiegano giorni, a volte mesi per riaccendersi nella mente. Non ricordi. Non ricordi un cazzo di niente. Fiuti il pericolo a fior di pelle e l’istinto, se non fosse anestetizzato, ti direbbe di scappare a gambe levate. Ti direbbe Lévate, a cojona, ancora lì stai. Ma hai i piedi sprofondati nella melma del pavimento, pesanti come incudini di piombo. Il frastuono tutt’intorno cresce, senti come un trillo persistente che in lontananza ti buca il cervello, come un martello che colpisce la corteccia metallica del tuo cranio. Poi tipo tutto nero. Nero. Le tenebre.

GENNAIO

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